Quando si ricordano i primi passi dell'"italiano" sul finire del medioevo, il pensiero corre subito a Firenze e ai suoi grandi autori trecenteschi, Dante, Petrarca e Boccaccio, che con i loro scritti permisero al "fiorentino" di affermarsi come lingua letteraria nazionale. Non tutti sanno, però, che se è vero che la lingua italiana è nata sulle rive dell'Arno, la letteratura italiana è nata altrove, molto più a sud. Infatti, il volgare, ossia la lingua del popolo, che sino ad allora era stato usato in luogo del latino soltanto in scritti di carattere pratico come, ad esempio, contratti e statuti cittadini, fu utilizzato per la prima volta come lingua letteraria nella scuola siciliana, che si sviluppò alla corte dell'imperatore Federico II di Svevia nella Palermo della prima metà del milleduecento. In quel momento il capoluogo siciliano non era soltanto la capitale di un regno che abbracciava tutto il sud d'Italia, ma era anche la residenza preferita di un sovrano che era allo stesso tempo imperatore del sacro romano impero. Alla sua corte di illuminato mecenate dell'arte si creò una cerchia di letterati, non tutti siciliani, che sull'esempio dei trovatori provenzali dedicarono le loro poesie all' "amor cortese". La lingua usata dai maestri di questa scuola, come Giacomo da Lentini e Stefano Protonotaro, fu un volgare siciliano elegante che subì una forte influenza del provenzale in cui si erano espressi i trovatori. Nella seconda metà del duecento, quando la sconfitta militare di Manfredi, erede di Federico II, da parte degli Angioini, pose fine alla dinastia degli svevi e la capitale del regno del sud fu spostata a Napoli, la scuola siciliana si esaurì rapidamente, ma la sua opera lasciò tracce importanti nel periodo successivo, tanto che la prima scuola poetica toscana sarà detta siculo-toscana. L'eredità di questa prima scuola poetica si manifestò anche nella lingua, basti pensare ad esempio, che per molto tempo negli autori toscani e italiani in generale sopravviveranno, accanto alle voci verbali "toscane", alcune forme siciliane, come i condizionali in "-ia", a fianco della normale desinenza in "-ei", e voci quali "aggio" e "saccio", che si alternavano ai corrispondenti toscani "ho" e "so".